Intervista al dott. Marco Pizzi (Spitz), psicologo, psicoterapeuta, libero professionista a Trieste. Direttore per le Human Rights della Triest-NGO, ha partecipato come relatore al “9th sessions of humanitarian crises” presso il Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra il 24 e il 25 novembre 2016.
Trieste è una città con una caratteristica unica al mondo: la maggior parte della sua cittadinanza porta un cognome falso, italianizzato per adeguarsi alle leggi del regime fascista imperanti a partire dal primo conflitto mondiale, con l’arrivo dell’Italia nella Venezia Giulia e nell’ Istria. Nel suo libro, Lei ci spiega come l’italianizzazione del cognome originario abbia avuto diverse conseguenze, fino alla creazione di una popolazione che ha perduto il contatto con la propria identità e con la propria stirpe, quelli che Lei ha definito: “nameless”.
Dott. Pizzi, che cosa rappresenta, per una persona, il proprio cognome?
Quando si parla di famiglia, si fa implicito riferimento alla cultura, alle usanze, al linguaggio, all’ habitat in cui si sviluppa la storia di quella famiglia, quindi alla storia della persona che fa parte di quella famiglia, alla sua appartenenza e, in sintesi, alla sua stirpe. Se il nome ha un attributo individuale, che identifica cioè il soggetto, il cognome identifica invece la stirpe, la provenienza e, in sintesi, la storia generazionale del suo portatore. Il cognome diventa quindi la traccia evolutiva di ogni individuo, ciò che lo definisce in relazione alla sua radice territoriale più profonda, e racconta della sua identità attraverso il susseguirsi delle generazioni e dei cambiamenti sanciti dal trascorrere del tempo. Per questo motivo, violare la possibilità di identificarsi, attraverso il proprio cognome, con la propria ascendenza, significa violare le fondamenta del proprio sistema familiare di appartenenza e, di conseguenza, significa perturbare il processo di individuazione e di identificazione di Sé dell’individuo che ha subìto questo tipo di violazione.
E da un punto di vista sociale, l’italianizzazione del cognome ha qualche effetto?
Più di qualche effetto direi! Pensiamo, ad esempio, come il fenomeno dell’italianizzazione del cognome abbia comportato l’appartenenza ad una “terra di mezzo”, un limbo caratterizzato dalla perdita del contatto con le proprie origini e con la propria cultura di appartenenza ma anche dall’ impossibilità di sentirsi appartenenti ad un gruppo sociale che, di fatto, non è il proprio (quello italiano). La cosa preoccupante è che le conseguenze psicologiche rispetto al fatto di essere un “né – né”, conseguenze che, talvolta, possono anche essere molto gravi in termini identitari, relazionali e simbolici, sono ormai talmente radicate nel territorio che persino i soggetti coinvolti non se ne rendono neanche più conto. In pratica, l’individuo, la cui identità familiare è stata strappata, si trova ad essere sprovvisto di un modello familiare di riferimento, impossibilitato a identificarsi con la propria stirpe d’appartenenza. Ma senza un modello interno di riferimento non si può sopravvivere e per questo, spinto dalla necessità primaria di sicurezza e appartenenza, andrà in cerca di nuove appartenenze, di nuovi gruppi di riferimento dai quali assorbire valori e modalità che però, non appartenendogli, richiederanno un processo di adattamento e ridefinizione di Sé, con la perdita delle proprie radici. L’individuo vittima di questa conversione identitaria inizierà cioè a costruirsi quello che in psicologia definiamo un “Falso Sé”, una struttura psichica inautentica che obbliga a vivere in costante risposta agli altri, e a rinnegare le proprie origini, la propria appartenenza, che percepisce come indesiderabile dalla società dominante, comportandosi in modo da compiacere il modello sociale vigente, anche se questo è in palese contrasto con la sua autenticità.
Nel suo libro, lei ha parlato di “sindrome da vergognizzazione”; può aiutarci a capire meglio cosa intende?
E’ un po’ quello che si diceva poco fa: sprovvisto di un modello di riferimento familiare e impossibilitato a identificarsi con la propria stirpe di origine, considerata dalla cultura dominante come inferiore, priva di valore o peggio, l’individuo la cui identità familiare è stata strappata dovrà crearsi una nuova identità e, per farlo, inizierà ad adeguarsi a ciò che gli altri e il modello sociale vigente si aspettano da lui, prendendo sempre maggior distanza dalla propria origine, nascondendola, negandola o provando per essa una sorta di imbarazzo, se non addirittura un esplicito senso di vergogna. Si possono facilmente intuire, a livello generazionale, le conseguenze di questo sentimento di vergogna indotto e diffuso attraverso una vera e propria campagna propagandistica e di rieducazione della popolazione: negli anni, le neo-famiglie italianizzate sono infatti state vittima di un processo di distorsione storica, culturale e anche toponomastica, volta a cancellare nelle generazioni future ogni possibile riferimento al proprio passato, alle proprie origini e alla cultura dei popoli che vivevano nella Venezia Giulia. In un certo senso, si è progressivamente assistito al dilagare di una “cultura della menzogna” a danno degli italianizzati, finalizzata ad indurre e a cronicizzare un sentimento di vergogna verso la propria origine nelle popolazioni autoctone non italiane. Infatti, non è mai venuta meno l’azione sociale che spinge verso la negazione della storia e favorisce, per contro, la politica nazionalistica italiana, una politica che millanta il territorio della Venezia Giulia come un territorio storicamente italiano, dimenticando che, ad esempio, per circa 536 anni, dal 1328 al 1918, Trieste, per sua esplicita volontà (documentata) era stata una città dell’Impero Austro-Ungarico. Oggi, però, gli “italianizzati”, coercizzati ed educati a non riconoscere la propria stirpe originaria, sembrano aver perso la possibilità di percepirsi e definirsi in riferimento alla loro appartenenza e questo con grave distorsione e dispersione della propria identità sociale, culturale e familiare. La conseguenza più immediata? La perdita del senso dei propri diritti, in primis il diritto di appartenenza alla propria stirpe e il diritto a difendere la propria identità.
Questa cultura della menzogna di cui parla avrebbe quindi delle conseguenze psicologiche sugli individui il cui cognome è stato italianizzato?
Fondamentalmente due. Innanzi tutto, ciò che in psicologia è definito “learning helplessness”, disperazione appresa. In sostanza, è stato osservato come la ripetuta esposizione a fattori stressanti, percepiti come incontrollabili e inevitabili, produce un comportamento di graduale rassegnazione, di anomala passività, di impotenza, di immobilità. Io ipotizzo che questo sia proprio il meccanismo alla base della mancata richiesta della restituzione del proprio cognome originario di tanti italianizzati che hanno subìto un lungo processo di indottrinamento alla cultura italiana e alla vergognizzazione della altre culture autoctone. Ma ipotizzo anche che questo sia il meccanismo alla base della rassegnazione che impera in molte persone, deprivati dell’energia necessaria per reagire e difendere i propri diritti. C’è poi il concetto di “dissonanza cognitiva”, un complesso fenomeno alla base di molti disagi psicologici derivanti dalla coesistenza di cognizioni (credenze, conoscenze, opinioni su di sé, sugli gli altri o sul mondo) in aperto contrasto tra di loro. Proviamo a pensare a cosa possa comportare il fatto di appartenere ad un modello familiare e culturale percepito come indesiderabile e che, pertanto, si vuole negare per procedere ad un’identificazione con quello stesso modello sociale e culturale che non solo non ci appartiene ma ha anche sancito la nostra indesiderabilità!
Poi però, l’Italia ha riparato ai torti inferti agli “italianizzati”, promulgando la legge 28 marzo 1991, n. 114.
No, la legge 114 cita:
“Art. 1. E’ riconosciuto il diritto al ripristino nella forma originaria del cognome italiano assunto o attribuito in base alle disposizioni degli articoli 1 e 2 del regio decreto-legge 10 gennaio 1926, n. 17, convertito dalla legge 24 maggio 1926, n. 898, estese dal regio decreto 7 aprile 1927, n. 494, ai territori già annessi all’Italia con le leggi 26 settembre 1920, n. 1322, e 19 dicembre 1920, n. 1778.” In altri termini, la legge 114 riconosce il diritto al ripristino nella forma originaria ma non sancisce il ripristino dei cognomi in forma originaria, il cui onere spetta al richiedente, che dovrà dimostrare il proprio diritto al cognome originario, sobbarcandosi i costi, sia in termini economici sia pratici e burocratici. Oltre alle difficoltà di reperire documenti che, in molti casi, sono andati perduti anche a causa della guerra, la Legge 114 sembra essere una vera e propria beffa: dopo decenni di indottrinamento alla cultura italiana, quanti individui delle nuove generazioni, resi orfani della propria stirpe di appartenenza da almeno due generazioni, spesso senza la consapevolezza di ciò che è realmente accaduto a causa di un lungo processo di falsificazione storica, e con scarsa capacità di realizzare, in autonomia, ciò che, almeno due generazioni prima, era la loro discendenza, si muoveranno a chiedere la difesa di un diritto che non riconoscono ormai più come il loro?
Il fatto di lasciare che la riparazione del danno spetti a chi lo ha subìto e non a chi lo ha procurato è, a mio parere, un’evidente contraddizione logica che, peraltro, non prevede alcuna pena per chi ha leso un diritto inviolabile della persona, come stabilito dalla “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”. Curiosamente, anche la Costituzione Italiana difende il diritto al nome della persona (cit.: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”).
Lei è molto critico rispetto al comportamento che l’Italia ha avuto verso le popolazioni autoctone della Venezia Giulia.
Sì e per diversi motivi che ho esposto nel mio libro. L’Italia si è resa rea di aver inferto un danno alle popolazioni autoctone della Venezia Giulia. Lo Stato italiano avrebbe dovuto riparare ammettendo le proprie responsabilità e ponendo fine alle leggi razziali imposte dal fascismo ma non solo ciò non è stato fatto ma ha anche perseverato in una strategia di falsificazione della storia che ha reso orfane le popolazioni di queste terre, avallando di fatto la violenza fascista. La possibilità per le vittime di riparare al danno subìto, prevedendo l’assunzione di responsabilità da parte di chi ha cagionato il danno, viene quindi non considerata come una necessità dallo Stato italiano, disvelando il giudizio denigratorio sotteso e a tutt’oggi riservato ai cittadini non italiani della Venezia Giulia. Il rispetto per i Popoli non può prescindere dal riconoscimento della loro realtà storica ed identitaria. Ed è questo che muove il mio impegno all’interno della Triest-NGO, affinché ogni individuo possa veder rispettati i propri inalienabili diritti di appartenenza e possa scegliere consapevolmente chi essere e cosa diventare.